Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? Come le teste prive di corpo che qualche volta si vedono nei baracconi da fiera, io mi trovo come circondato da specchi deformanti di durissimo vetro. Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me.
(Einaudi. Traduzione: Carlo Fruttero e Luciano Gallino)
[Prologue
I am an invisible man. No, I am not a spook like those who haunted Edgar Allan Poe; nor am I one of your Hollywood-movie ectoplasms. I am a man of substance, of flesh and bone, fiber and liquids – and I might even be said to possess a mind. I am invisible, understand, simply beause people refuse to see me. Like the bodiless heads you see sometimes in circus sideshows, it is as though I have been surrounded by mirrors of hard, distorting glass. When they approach me they see only my surroundings, themselves, or figments of their imagination – indeed, everything and anything except me.]
Prologo – quella porzione di testo che sta sulla soglia e introduce quanto segue fornendo tipicamente delle chiavi di lettura. E la chiave che tutto apre ha comprensibilmente a che fare con la questione che il titolo stesso mette sul tavolo – che cosa si possa intendere per invisibilità, come un uomo possa definirsi invisibile. E’ una prima persona che si attribuisce questa caratteristica e che si presenta ai lettori senza indugi con una situazione esistenziale a dir poco complessa: io=uomo invisibile. La presenza forte della voce che dice “io” e che si assume immediatamente il compito di definirsi (“io sono…”) ci offre un predicato a dire poco problematico. I significati che istintivamente ci vengono in mente pensando all’invisibilità sono tutti negati nelle righe che seguono questa prima – fondativa – definizione: niente spettri alla Edgar Allan Poe e neanche ectoplasmi hollywoodiani. E dunque?
Ecco una seconda definizione (“sono…”) che ci rassicura (carne e ossa, cervello) e al contempo complica la situazione in quanto l’aggettivo invisibile si attaglia con difficoltà alla sostanza palpabile e solida della carne e delle ossa. Nel frattempo al di là delle scivolose questioni definitorie registriamo il piglio sicuro di questa voce che suona autorevole e ben consapevole della nostra presenza e del nostro lavorio mentale (“No, non sono” “capito?”). Si tratta di un narratore che dimostra una certa maestria nel maneggiare le parole (vedi le coppie spettro/ectoplasma, carne,ossa/fibre,umori), e i riferimenti che pescano sia nei classici (Poe) che nella cultura pop (Hollywood); percepiamo anche un tono sottilmente ironico (“si può persino dire che posseggo un cervello”).
Torniamo alla definizione dunque. La questione dell’invisibilità è “semplice”, ci dice il nostro narratore in prima persona, ed è presto detta: “la gente si rifiuta di vedermi”. La situazione paradossale in cui si trova il nostro narratore-protagonista è dunque relazionale – ha a che fare, cioè, con un rifiuto della “gente” di vedere. Non si tratta quindi di una invisibilità assoluta, ontologica, ma di una invisibilità che concerne l’individualità dell’io che ci parla. La “gente”, infatti, non è che non vede niente, ma vede tutto tranne la singolarità del protagonista: nello specifico, “solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia.” Insomma, il protagonista vive come circondato da specchi deformanti che gli rimandano un’immagine di sè distorta da tutto ciò che “la gente” proietta sulla sua persona, un’immagine caratterizzata da tratti sociologicamente determinati (“quello che mi sta intorno”) o psicologicamente definiti (“se stessi”) o inventati (“invenzioni della loro fantasia”).
Ma che situazione è mai questa? Qui sta il problema, la tensione di questo incipit: immaginare questo tipo di situazione esistenziale e calarla in un orizzonte di senso. Dato che stiamo parlando di un classico della letteratura afro-americana è tutto sommato facile fare uno più uno e collocare questa descrizione sull’orizzonte ben noto delle dinamiche della color-line di matrice nord americana. A ben vedere, oltre che facile è anche un modo per scansarsi circa la possibile rilevanza per noi, qui e adesso.
L’esercizio (a volte scomodo e faticoso, ma – spero – stimolante che è al centro di CosìComincia) ci chiede di sganciarci dal contesto, ovvero di non dipendere in maniera assoluta dalle informazioni che possiamo reperire a destra e a manca del testo che lo scrittore ha scritto. Ed ecco allora che una volta accettata la sfida di non risolvere la questione interpretativa ancorandola ad un preciso dato sociologico – gli Stati Uniti degli anni 30-50 del novecento, Uomo invisibile di Ralph Ellison ci pone una domanda scomoda sulle invisibilità del nostro tempo e dei nostri contesti. Ci sono situazioni in cui anche noi ci comportiamo come la “gente” di questo inizio? Quand’è che ci capita ancora di guardare senza vedere?