Infinite Jest (David Foster Wallace, 1996)

978880617872MEDANNO DI GLAD

Siedo in un ufficio, circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia. Sono in una stanza fredda nel reparto Amministrazione dell’Università, dei Remington sono appesi alle pareti rivestite di legno, i doppi vetri ci proteggono dal caldo novembrino e ci isolano dai rumori Amministrativi che vengono dall’area reception, dove poco fa siamo stati accolti lo zio Charles, il Sig. deLint e io.

Sono qui dentro. (Einaudi Stile Libero, traduzione Edoardo Nesi)

[YEAR OF GLAD

I am seated in an office, surrounded by heads and bodies. My posture is consciously congruent to the shape of my hard chair. This ia a cold room in University Administration, wood-walled, Remington-hung, double-windowed against the November heat, insulated from Administrative sounds by the reception area outside, at which Uncle Charles, Mr. deLint and I were lately received. 

I am in here.]

In una recente intervista di Gianluca Didino, il (magnifico) biografo di David Foster Wallace, D.T. Max sostiene: “per comprendere un uomo profondo e complesso come è stato Wallace, a volte le categorie della critica letteraria non solo si rivelano poco funzionali, ma andrebbero decisamente ignorate.”

Ecco, appunto. Ci provo in punta dei piedi.

“Correva l’anno”: quante volte ci siamo imbattuti in questa frase! Subito, senza indugio, ci viene detto quando è successo quello che ci verrà raccontato. E’ un modo per farci sintonizzare in fretta con il mondo in cui stiamo entrando, per portare alla superficie conscia quello che già sappiamo di quel dato momento storico. E Anno di Glad?

Qui siamo anni luce (a proposito di anni!) dalla rassicurante apertura classica: la promessa di una collocazione temporale suggerita dalla parola “anno” si infrange su un termine che non ci dice nulla, anzi ci complica da subito la vita perchè fa sorgere in noi domande a cui non possiamo a questo punto dare risposta. La facile via di uscita della fantascienza con una data nel vicino o lontano futuro non funziona qui (la data futura, in fin dei conti, è misurabile in termini di distanza dal nostro adesso).

Le mille pagine abbondanti del libro più famoso e discusso di David Foster Wallace si aprono con una implicita affermazione che nasconde una (altrettanto implicita) richiesta: il mondo in cui stai entrando non è completamente sovrapponibile al mondo che conosci (dato che non ci risulta ci sia nei nostri libri di storia un anno di Glad) quindi lasciati andare, fidati. Se vuoi proseguire devi essere disposto ad accettare le regole di questo gioco – che ancora non conosciamo.

Quello che segue questa criptica apertura amplifica il nostro disagio: un personaggio in prima persona descrive il luogo in cui si trova e anche – indirettamente – se stesso. Come in altri inizi che avremo modo di vedere, la cosa più ostica da negoziare, riguarda proprio il linguaggio che questa prima persona usa, partendo proprio dalla scelta delle parole. Teste, corpi? Perchè non persone come quelle che vengono nominate qualche riga sotto? E la descrizione della propria posizione – anzi postura – sulla sedia? Geometricamente precisa, ma curiosa, eccentrica, in una parola strana.

A ben guardare forse la caratteristica dominante di questo dire è la precisione letterale: le persone sono indiscutibilmente fatte di corpi e di teste e una seduta è effettivamente descritta in maniera precisa specificando il rapporto tra corpo e sedia. Il “qui” che il protagonista-narratore di questo inizio ci descrive emerge nitido, quasi fastidiosamente nitido – appunto per questa pignola letteralità. Le informazioni non mancano – è novembre, fuori fa caldo (quindi immaginiamo uno stato caldo degli Stati Uniti, sempre che siamo negli Stati Uniti, naturalmente), siamo in un ufficio di una università, il narratore assieme a suo zio e a tale signor deLint è accolto, quindi supponiamo, atteso, alla reception. Manca tutto il resto, manca soprattutto sapere chi è che parla o meglio percepisce ciò che lo circonda e se stesso “consciamente” in questa maniera. Il narratore è “qui dentro” e anche noi siamo qui, dentro a un testo che chiede subito disponibilità a stare in territori percettivi non ordinari. Accettiamo la sfida?

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Chi racconta questa storia?

 

Due tagliL’ incipit che ho commentato tratto dal romanzo di José Saramago, L’uomo duplicato, è un esempio di narrazione in terza persona. La questione è piuttosto complessa e, a seconda delle scuole critiche (e del relativo vocabolario) in gioco, può venire descritta in maniera diversa.

Cerchiamo di semplificare: se c’è un detto (la storia narrata) ci viene istintivo pensare ci sia qualcuno che dice. Ci viene istintivo, perché così funzionano le cose nel mondo che conosciamo. In fin dei conti, una definizione di narrazione abbastanza soddisfacente perché articola un concetto intuitivo è la seguente: una narrazione consiste in qualcuno che dice a qualcun altro che è successo qualcosa. “Il qualcuno che dice” è il narratore che può dire “io” e far parte quindi del mondo narrato come personaggio (protagonista o meno) oppure no. A questo secondo caso appartiene l’incipit di Saramago.

Se questo qualcuno non è presente come personaggio, tuttavia, non significa che la sua presenza non sia percepibile. Un modo per catalogare il variegato gruppo di questo tipo di narratori è proprio il loro grado di visibilità, o, per essere più precisi, di udibilità. Ci sono infatti narratori essenzialmente inudibili di cui non riusciamo a farci un idea, e narratori che – invece – riusciamo in qualche modo a individuare tra le pieghe di quello che dicono e delle parole che scelgono. Con che narratore abbiamo a che fare qui? Prima di tutto un narratore che ha l’aria di sapere parecchie cose, compresi i pensieri del protagonista. Ha accesso alla sua interiorità, ci dice per esempio, quali dei suoi nomi, il nostro riesce ad ammettere, esattamente da quando il nome Tertuliano gli pesa come un macigno, e che cosa probabilmente pensa della situazione che vivrebbe adesso se avesse avuto figli. Addirittura, il narratore dimostra di sapere cosa il protagonista non ricorda.

Il piglio è quello di qualcuno che ha in mano tutto il quadro e ne è consapevole (e se ne compiace pure). Capiamo tutte queste cose istintivamente, ma possiamo anche indicare i luoghi testuali che contribuiscono a formare questa impressione: espressioni come “in verità”, “per dirla con la precisione clinica che l’attualità richiede”, “per avere un’idea chiara del suo caso, basti dire…” ci fanno sentire inequivocabilmente che il narratore non si vuole nascondere, ma vuole che noi ci accorgiamo che c’è qualcuno al timone a guidare la rotta della narrazione, dall’alto, ovvero da una posizione di maggiore conoscenza. Dico maggiore conoscenza e non onniscienza solo perché la prova del nove ce la può fornire solo il proseguimento del libro e la dimostrazione che il narratore ha accesso anche ad altre interiorità. Diciamo che quello che ci offre l’incipit giustifica una scommessa in questo senso. L’effetto sui lettori di questo tipo di voce autorevole che ci dà l’idea di parlare con cognizione di causa riguarda la nostra immediata disponibilità ad affidarci.

Ma che altri tipi di narratore in terza persona ci sono? Avremo modo di parlarne in una delle prossime soste.

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L’uomo duplicato (José Saramago, 2002)

 

Saramago - uomoduplicato

Il caso è un ordine da decifrare. Libro di contrari

Credo sinceramente di avere intercettato molti pensieri che i cieli destinavano a un altro uomo. Laurence Sterne

L’uomo che è appena entrato nel negozio per noleggiare una videocassetta ha nella sua carta d’identità un nome tutt’altro che comune, di un sapore classico che il tempo ha reso stantio, niente di meno che Tertuliano Máximo Afonso. Il Máximo e l’Afonso, di applicazione più corrente, riesce ancora ad ammetterli, a seconda, però, della disposizione di spirito in cui si trovi, ma il Tertuliano gli pesa come un macigno fin dal primo giorno in cui ha capito che l’infausto nome si prestava a essere pronunciato con un’ironia che poteva essere offensiva. E’ professore di Storia in una scuola media, e la videocassetta gli era stata suggerita da un collega di lavoro che tuttavia non si era dimenticato di preavvisare, Non che si tratti di un capolavoro del cinema, ma potrà intrattenerla per un’ora e mezza. In verità, Tertuliano Máximo Afonso ha un gran bisogno di stimoli che lo distraggano, vive da solo e si annoia, o, per dirla con la precisione clinica che l’attualità richiede, si è arreso alla temporale debolezza d’animo comunemente nota come depressione. Per avere un’idea chiara del suo caso, basti dire che è stato sposato e non si ricorda di cosa lo abbia portato al matrimonio, ha divorziato e ora non vuole neanche ricordarsi dei motivi per cui si è separato. In compenso, da questa mal riuscita unione non sono nati figli che ora sarebbero lì a pretendere gratis il mondo su un vassoio d’argento, ma la dolce Storia al cui insegnamento lo hanno chiamato e che potrebbe essere il suo cullante rifugio, la vede ormai da lungo tempo come una fatica senza senso e un inizio senza fine. […]  

(Einaudi 2003, traduzione di Rita Desti)

Un “inizio senza fine”, questo di José Saramago. Un inizio che mi costringere a tagliare, dato che il primo paragrafo finisce quasi due facciate più in là. Non si tratta dell’unico incipit del grande scrittore portoghese che abbia questa caratteristica che lo accomuna ad un altro autore che amo molto – William Faulkner. Così è, prendiamo atto e cerchiamo perlomeno di iniziare a capire con che tipo di situazione narrativa abbiamo a che fare.

Il testo sembra subito porci di fronte ad un problema, quasi ad un paradosso: il titolo – L’uomo duplicato – trova un’immediata corrispondenza nelle primissime due parole del libro – l’uomo. Con il nome che si ritrova, però, l’uomo in questione sembrerebbe essere tutto fuorchè duplicabile. Eccoci quindi a maneggiare senza neanche aver avuto il tempo di metterci un momento a nostro agio, una domanda pesante: l’uomo duplicato che supponiamo essere al centro del libro che abbiamo in mano è Tertuliano Máximo Afonso? La domanda generica su come si faccia a duplicare un uomo che forse ci siamo già posti leggendo il titolo, si intensifica quando l’uomo di cui facciamo immediata conoscenza ci viene presentato subito come un individuo reso unico da un nome difficile da digerire per la sua – scomoda – singolarità.  L’ipotesi che sia proprio Tertuliano Máximo Afonso l’uomo che – chissà come – risulterà duplicato, è peraltro molto plausibile per il semplice fatto della sua assoluta preminenza in queste prime righe. Il riferimento esplicito a quello che è scritto nella sua carta di identità – il documento di individuazione per eccellenza – sembra suggerire che sarà proprio la questione dell’identità del protagonista al centro del libro (e forse, per estensione, la questione dell’identità tout court).

Nonostante il nome singolare, comunque, il nostro sembra un uomo comune: svogliato insegnante di Storia, tendente alla depressione, annoiato, tiepido. La vita sembra capitargli, senza che ci sia volizione da parte sua – un uomo senza qualità, insomma. Della sua vita pare si possa dire come del suo lavoro: “una fatica senza senso.”

Queste le ordinarie premesse di una storia il cui titolo ha dello straordinario e il cui significato rischia di essere nascosto nelle pieghe delle due epigrafi tratte dal Libro di contrari e da Sterne.

Forse che il passaggio dall’ordinario allo straordinario avrà a che fare con la videocassetta che Tertuliano Máximo Afonso si appresta a noleggiare? La posizione forte di questo dettaglio potrebbe indurci a pensare che sia proprio così, o forse si tratta solo di un dettaglio insignificante, parte dell’insignificanza della vita del protagonista.

Ma chi ci racconta questa storia? Questo tipo di voce, distaccata, autorevole, sofisticata ed ironica merita una sosta – la prossima.

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