Harry Potter e la pietra filosofale (J.K. Rowling, 1997)

pietra-filosofaleIl bambino sopravvissuto

Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane e misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano. (Salani, 1997 traduzione di M. Astrologo)

[The Boy Who Lived

Mr and Mrs Dursley, of number four, Privet Drive, were proud to say that they were perfectly normal, thank you very much. They were the last people you’d expect to be involved in anything strange or mysterious, because they just didn’t hold with such nonsense.]

Non credo ci sia indirizzo immaginario più conosciuto su tutta la superficie terrestre del numero 4 di Privet Drive: il solo citarlo ha il potere di evocare letteralmente un mondo, in un numero enorme di lettori grandi e piccini da un capo all’altro del pianeta. Ma proviamo per un momento a tornare a quel primo paragrafo in cui per la prima volta siamo entrati in quella casa e abbiamo fatto la conoscenza della famiglia Dursley. Niente babbani, né binario 9 e 3/4, né Hogwarts, né levitazione, né arti oscure, non ancora.

Tutto comincia con un marito e una moglie che hanno da subito un cognome e un indirizzo. Niente di più comune insomma: ci vengono presentati due personaggi e vengono collocati in uno spazio preciso. Niente male: poche parole e il chi e il dove sono almeno parzialmente risolti. Non sappiamo che legame abbiano i Dursley con l’Harry Potter in copertina, nè tantomeno con il bambino sopravvissuto del titolo del capitolo – troppo presto. Possiamo ipotizzare che un legame ci sia (perchè altrimenti cominciare un capitolo che ha a che fare con un dato bambino con personaggi che non c’entrano niente?). Comunque, non siamo in fantasilandia e la specificazione “il signore e la signora”, proprio in apertura, ha il rassicurante effetto di toccare la nota della familiarità: una normale coppia sposata, insomma. Anzi, la famiglia in cui siamo capitati, non è abbastanza o mediamente normale, ma è “perfettamente” normale: i Dursley sarebbero niente meno che gli ultimi al mondo da cui aspettarsi cose strane, e di questo, ci viene detto subito, vanno particolarmente orgogliosi. Le stranezze e i misteri non solo non sono nelle loro corde, ma sono “sciocchezze” che proprio non approvano.

Eppure, se solo leggiamo questo incipit con calma assaporandolo a sorsi lenti, cogliamo subito che è proprio tra le pieghe di questa perfetta normalità che c’è qualcosa di anormale. L’ostinata insistenza su questa benedetta parola messa in contrapposizione con il suo opposto – mistero, stranezza – attira la nostra attenzione. Così vengono subito messi in gioco due campi semantici fondamentali e contrapposti – quello del mistero e quello della normalità – che, guarda caso, costituiscono la struttura tematica portante della fortunata saga. Un campo semantico è come un campo magnetico: uno spazio linguistico in cui si aggregano le parole apparentate dallo stesso significato di base, una specie di grappolo di sinonimi e di associazioni.

Il “e grazie tante” che aggiunge al tutto il piacevole sapore della colloquialità, vorrebbe chiudere la questione e invece la apre, e noi ci ritroviamo subito a dubitare della normalità del mondo in cui siamo appena entrati e ad interrogarci sui misteri e le stranezze che lo popolano, nonostante, o meglio, proprio perché i Dursley disapprovano. Un solo paragrafo ed eccoci incastrati: la voglia di proseguire scatenata da queste prime accattivanti note che contrappongono una “perfetta” normalità borghese a delle indefinite e quindi per definizione misteriose stranezze. Dire che il gioco è fatto dopo così poche righe è decisamente eccessivo, ma quante volte il destino di un libro dipende dalle primissime note?

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I personaggi (e noi)

sul leggereRiprendo ed amplifico una nota. I personaggi meritano senz’altro una sosta tutta per loro, o chissà, più soste. Indubbiamente, molto spesso i personaggi sono quanto di più memorabile ci rimane di un libro letto. I nomi di alcuni sono diventati addirittura rappresentativi di una tipologia – basta citarli e atteggiamenti, caratteristiche, un modo di intendere il mondo, vengono evocati. Mi vengono in mente, per esempio, Madame Bovary o Amleto o Don Chisciotte.

Questi casi eclatanti e tutto sommato eccezionali attirano la nostra attenzione su una questione che è al centro del nostro rapporto con i libri: la permeabilità tra quello che c’è dentro un romanzo e quello che c’è fuori. Come mai sorridiamo, piangiamo, sogniamo e patiamo assieme a personaggi che sappiamo essere di carta? In una frase – e per citare un libro recente su questo argomento di Blake Vermeule, Why Do We Care about Literary Characters? (perchè ci importa dei personaggi dei libri?). La risposta è semplice e, in un certo senso, poco romantica: i meccanismi cognitivi ed emozionali che si attivano quando entriamo in relazione con i personaggi dei libri che leggiamo sono gli stessi che si attivano quando abbiamo a che fare con le persone in carne ed ossa che abitano il nostro mondo reale. Più tempo dedichiamo all’ascolto e alla comprensione di una persona vera e ci viene concesso il privilegio di accedere alla sua interiorità, più siamo coinvolti nel suo microcosmo (e molto probabilmente siamo disponibili a prendere le sue parti, e magari a sposare il suo punto di vista sulle cose). E dato che uno degli ingredienti magici dei libri è il privilegio di entrare nel mondo interiore dei suoi personaggi, non dobbiamo stupirci del nostro coinvolgimento. Il nostro “sentirci nei panni di” dipende dal vivere in maniera assolutamente letterale il “come se” su cui si basa il patto di lettura. Oppure, potremmo riformulare la questione e dire che la realtà delle nostre emozioni – le lacrime scendono proprio sulle nostre guance, la risata scoppia proprio nella nostra bocca – rende i personaggi emozionalmente veri, tangibilmente esistenti.

Per adesso, cioè per questa sosta, mi preme sottolineare che la letteralità del “come se” non è una scelta che si gioca a livello di coscienza, ma un meccanismo cognitivo ed emozionale automatico – a meno che non parliamo di lettori anaffettivi, ma appunto, l’anaffettività non riguarderebbe la lettura e basta, ma la vita.

Mi fermo qui. Troppa carne al fuoco? Sulla permeabilità, sugli automatismi, sul “come se” tornerò senz’altro.

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La scopa del sistema (David Foster Wallace, 1987)

Wallace - Scopa del sistemaCapitolo 1

1981

Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti, e Mindy Metalman non fa eccezione, pensa Lenore, all’improvviso. Sono piatti e lunghi, con le dita strombate e i mignoli afflitti da bottoni di una callosità giallognola che riappare a mo’ di battiscopa lungo i calcagni, e sul dosso dei piedi sbucano peluzzi neri arricciati, e lo smalto rosso è screpolato e si scrosta a boccoli per quant’è vecchio, mostrando qua e là striature bianchicce. Lenore se ne accorge solo perché Mindy si è chinata in avanti sulla sedia accanto al minifrigo per staccare dalle unghie dei piedi appunto un paio di fiocchi di smalto; i lembi dell’accappatoio si dischiudono su un generoso scorcio di scollatura, decisamente più sostanziosa di quella di Lenore, e lo spesso asciugamano bianco che cinge la chioma zuppa e shampizzata di Mindy si è allentato e una ciocca di capelli scuri è sgusciata tra le pieghe e scende leggiadra incorniciandole la guancia fin sul mento. Nella stanza c’è odore di shampoo Flex, ma anche di canne, poiché Clarice e Sue Shaw si stanno facendo uno spino bello grosso che Lenore ha ricevuto in dono da Ed Creamer alla Shaker School e ha portato qui al college insieme ad altra roba per Clarice. (Einaudi Super ET, traduzione Sergio Claudio Perroni)

 [The Broom of the System, 1987

1

1981

Most really pretty girls have pretty ugly feet, and so does Mindy Metalman, Lenore notices, all of a sudden. They’re long and thin and splay-toed, with buttons of yellow callus on the little toes and a thick stair-step of it on the back of the heel, and a few long black hairs are curling out of the skin at the tops of the feet, and the red nail polish is cracking and peeling in curls and candy-striped with decay. Lenore only notices because Mindy’s bent over in the chair by the fridge picking at some of the polish on her toes; her bathrobe’s opening a little, some there’s some cleavage visible and everything, a lot more than Lenore’s got, and the thick white towel wrapped around Mindy’s wet washed shampooed head is coming undone and a wisp of dark shiny hair has slithered out of a crack in the folds and curled down all demurely past the side of Mindy’s face and under her chin. It smells like Flex shampoo in the room, and also pot, since Clarice and Sue Shaw are smoking a big thick j-bird Lenore got from Ed Creamer back at Shaker School and brought up with some other stuff for Clarice, here at school.]

Capitolo 1 1981. Due paletti piuttosto rassicuranti per la loro (apparente) trasparenza: da qui si parte, da questo capitolo 1 che andrà a raccontarci eventi collocabili con precisione – nel 1981, appunto. In realtà questo significa poco, nel senso che non sappiamo ancora se questa data sia la più vicina al presente della narrazione (e i prossimi capitoli avranno date meno recenti e il viaggio sarà all’indietro) o se il 1981 sia la data più lontana dal presente (e i prossimi capitoli avranno date successive e il viaggio sarà in avanti). Significa poco, quindi, per quello che riguarda la struttura generale di quello che seguirà (anche se il caso più comune è il secondo), ma qualcosa significa, dato che abbiamo un’idea degli anni ottanta, e siamo pronti a collocare quello che leggiamo su quello sfondo (che peraltro viene probabilmente confermato dal riferimento alle canne e allo spinello). Insomma, non è l’anno di Glad, che apre, come abbiamo visto, Infinite Jest. (Anche se il senso di stranezza qui è attivato dal titolo – misteriosissimo).

“Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti” – inizio folgorante: il traduttore riesce a mantenere la ripetizione – davvero, davvero – e ne escono anche due decasillabi. Ed è proprio la ripetizione e, forse, i decasillabi, che smorzano il tono perentorio dell’affermazione e danno a questo inizio un colore quasi fiabesco che lo distingue da altri inizi perentori che si giocano su affermazioni, per così dire, universali. Può venire alla mente il famosissimo incipit di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen – “E‘ cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie” – o l’altrettanto famoso inizio di Anna Karenina di Lev Tolstoj – “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.”

L’eventuale parentela si ferma qui non solo per la distanza siderale dei temi trattati – i piedi delle ragazze davvero belle, da una parte e le abitudini degli scapoli danarosi o l’infelicità singolare delle famiglie, dall’altra – ma soprattutto per quello che segue, cioè la specificazione “pensa Lenore, all’improvviso.” Ecco la chiave di questo inizio: guardiamo con gli occhi (e i pensieri) di Lenore quello che lei vede. La lunga lista di dettagli connessi dalla congiunzione “e” ci offre la scena di questa stanza di un dormitorio in un college così come si dispiega sotto i suoi occhi. Notate il tempo presente dei verbi (nota 1) che sottolinea il tempo reale del vedere e del pensare di quella che potrebbe essere la protagonista del romanzo.

Il narratore c’è, ed è visibile (“Lenore se ne accorge solo perchè Mindy …”, “la scollatura […] decisamente più generosa di quella di Lenore” il dettaglio di dove Lenore abbia preso “lo spino”, la scelta di alcune parole forse più marcate in italiano che in inglese “si dischiudono” “cinge” “leggiadra”), ma non snatura (del tutto) (nota 2) la sensazione che abbiamo di vedere quello che vede e sente Lenore, in presa diretta.

Nel paragrafo che segue ci verrano date molte informazioni su Lenore – che ha quindici anni, che è ritenuta molto intelligente, che è venuta a far visita a sua sorella maggiore Clarice Beadsman, matricola al college femminile Mount Holyoke, che vive a Shaker Heights, Ohio, che Mindy e Sue Shaw sono le compagne di stanza (al secondo piano del dormitorio della Rumpus Hall) di Clarice, che la visita (con annesso sacco a pelo) riguarda la scelta del college che Lenore dovrà fare l’anno successivo, che siamo in marzo ed è venerdì sera. Più pieno di informazioni di così il secondo paragrafo non poteva essere, ma appunto, si tratta del secondo paragrafo. Prima viene una cascata descrittiva traboccante di dettagli e piena di Lenore e della bella Mindy con i suoi brutti piedi.

Nota 1 – La presa diretta è ancora più evidente in inglese per la presenza di un verbo al present continuous – “the thick white towel […] is coming undone.”

Nota 2 – E’ tra le pieghe di questa non del tutto felice commistione che possiamo forse cogliere un Wallace alle prime armi.

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