“Eli, il fanatico” (Philip Roth, 1959)

GBC imgresLeo Tzuref sbucò da dietro una colonna bianca per dare il benvenuto ad Eli Peck. Eli fece un salto indietro, sorpreso; poi si strinsero la mano e Tzuref con un gesto lo invitò a entrare nella vecchia casa in rovina. Sulla porta Eli si voltò, e ai piedi del prato in discesa, dietro la giungla di siepi, oltre il sentiero buio sul quale non passava più nessuno, vide accendersi i lampioni stradali di Woodenton. Dai negozi lungo Coach House Road si alzò una fiammata di luce gialla; a Eli parve un segnale segreto da parte dei suoi concittadini: “Dì a questo Tzuref qual è la nostra posizione, Eli. Questa è una comunità moderna, Eli, abbiamo famiglia, paghiamo le tasse …” Eli, oppresso da questo messaggio, rivolse a Tzuref un’occhiata muta e stanca. (Einaudi, 2012. Trad. V. Mantovani).

 

[Leo Tzuref stepped out from back of a white column to welcome Eli Peck. Eli jumped back, surprised; then they shook hands and Tzuref gestured him onto the sagging old mansion. At the door Eli turned, and down the slope of lawn, past the jungle of hedges, beyond the dark, untrampled horse path, he saw the street lights blink on in Woodenton. The stores along Coach House Road tossed up a burst of yellow – it came to Eli as a secret signal from his townsmen: “Tell this Tzuref where we stand, Eli. This is a modern community, Eli, we have our families, we pay taxes …” Eli, burdened by the message, gave Tzuref a dumb, weary stare.]

Un nome apre la prima breve frase del racconto che chiude la prima fortunata raccolta di racconti (Goodbye, Columbus and Five Short Stories) di Philip Roth e un altro nome la chiude. E’ facile comprendere il fatto che tutti i nomi dei romanzi e dei racconti sono intrinsecamente vuoti (nota), cioè mancano di un referente nel “nostro” mondo che permetta di “riempirli” di tratti temperamentali, di caratteristiche, in una parola di una storia: i nomi hanno bisogno delle pagine che seguono per prendere un corpo, una biografia individuali per noi lettori. Detto questo, è comunque innegabile che questi due nomi del tutto vuoti e opachi non sono: portano con sè la loro appartenenza culturale ed etnica – sono nomi ebrei.

Se, come sono convinta, tra le pieghe degli inizi dei libri che valgono c’è spesso (mi tengo cauta, ma potrei dire sempre) tutto quello che segue, questa prima frase ci dice che la storia si giocherà tra questi due personaggi ebrei che si incontrano, sembra per la prima volta in apertura di racconto.

I primi verbi usati intonano immediatamente la nota del leggero disagio: Leo dà il benvenuto a Eli sbucando da dietro una colonna, Eli istintivamente si ritrae sorpreso – piccoli dettagli che suggeriscono, perlomeno, un certo nervosismo da parte di Eli.

Le righe che seguono ci mostrano Eli che indugia ad osservare quanto si sta lasciando alle spalle prima di varcare la soglia della vecchia casa di Leo, o forse dovremmo dire, quanto Eli si porterà in casa di quello che descrive: la cittadina di Woodenton gialla delle luci dei negozi (in contrasto con l’oscurità che circonda il luogo dove si trova) e un misterioso incarico da parte dei suoi concittandini che ha che fare con il tipo di comunità che Woodenton sente di essere – “un comunità moderna” – e di rappresentare (“dì … qual è la nostra posizione”). Eli varca la soglia del racconto e della casa prima “sorpreso” poi “oppresso” e la nostra prima impressione è che non sia particolarmente entusiasta dell’incarico o addirittura capace di portarlo a termine (“un’occhiata muta e stanca”), o forse è solo stanco, ma questo sguardo che indugia sembra dirci qualcosa di più profondo.

Eccoci dunque pronti ad affrontare l’incontro tra i due protagonisti con il tarlo del titolo: perchè Eli è definito the fanatic, dato che in queste prime battute sembra essere il semplice rappresentante di una istanza comunitaria di modernità? Che cosa c’è in questo Leo che non va giù alla comunità di Woodenton, fatta di persone che tengono famiglia e pagano le tasse?

Nota

su “i nomi … sono intrinsecamente vuoti”

I personaggi sono ingredienti essenziali del mondo dei romanzi e dei racconti di finzione. Intorno a loro si costruiscono le azioni e i dialoghi che fanno procedere la storia, che fanno la storia. E i personaggi hanno – quasi sempre – dei nomi propri che hanno la stessa identica funzione di individuazione che hanno i nomi propri, per così dire, veri (il vecchio e un po’ frusto concetto di verosimiglianza merita una sosta che vi inviterò a fare a breve). Un po’ come con le persone, l’apparire sulla scena di un romanzo di un nuovo personaggio con relativo nome è solo il primo tassello di quella che si può chiamare conoscenza. Intanto il nome e poi, pagina dopo pagina, una descrizione fisica (forse), una serie di tratti temperamentali (forse) che possono emergere da dialoghi in cui il personaggio è coinvolto, da pensieri di altri personaggi che lo riguardano o dall’accesso alla sua interiorità se il personaggio parla in prima persona o se gli eventi ci vengono raccontati dal suo punto di vista (prometto un’altra sosta su questo). Piano piano, tassello dopo tassello, quel nome “vuoto” che ci è stato offerto si riempie di caratteristiche e di conseguenza di aspettative da parte nostra.

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Ma dove finiscono gli inizi (e dove cominciano)?

Dato che parlo di inizi, ovvero di incipit di romanzi e di racconti, vediamo di affrontare subito delle domande che stanno a monte di  tutto. Quanto lungo è un “inizio”? Come faccio a sapere quando finisce?

Belle e difficili domande. Vediamo di orientarci in breve, semplificando questioni che hanno a che fare con i generi, le cronologie e le categorie di “realismo”, “modernismo”, “postmodernismo”, “sperimentazione” e simili.

Se abbiamo a che fare con un romanzo realista (temporalmente collocato nell’ottocento e esemplificato da signori come Dickens, Balzac o il nostro Manzoni dei Promessi sposi) in genere percepiamo la fine dell’inizio quando da un momento che potremmo definire espositivo-descrittivo passiamo ad un momento specifico che zooma su una scena o un evento particolare. Si tratta di una generalizzazione e come tutte le generalizzazioni semplifica troppo la situazione ed è, in realtà, difficile da sostenere. Strada facendo affineremo questa iniziale e provvisoria semplificazione.

Se non siamo nel contesto generico del romanzo realista, la situazione si complica alquanto. Parentesi: il romanzo realista, siamo chiari, non si limita all’ottocento ma a tutte quelle scelte da parte dello scrittore che ricercano un certo (forte?) effetto di verosimiglianza, cioè di riconoscibilità rispetto al mondo reale che conosciamo. Il lettore può trovarsi nel mezzo di una conversazione tra emeriti sconosciuti, a una camminata, a una battaglia, a un sogno, o nei meandri di un pensiero, a un prologo che sembra campato in aria – senza preamboli, nè spiegazioni. In questi casi il lettore si trova catapultato in un discorso che sembra non essere iniziato lì, a cui deve piano piano dare un senso. Data la casistica pressochè infinita, propongo di basarci – per iniziare! – su un criterio quantitativo: il primo paragrafo. Non posso motivare seriamente questa scelta se non invocando lo stacco visivo e la conseguente pausa che l’andare a capo implica. Ci troveremo a dovere dubitare di tutto questo – lo faremo a mano a mano che le circostanze testuali ci costringeranno a farlo …

Il primo paragrafo, peraltro, non è la prima cosa che un lettore incontra quando comincia un libro. Gli inizi, insomma, iniziano prima dell’inizio, con quello che tecnicamente si chiama paratesto – titolo, dedica, epigrafi, prefazioni e quant’altro abbia a che fare con materiale che sta sulla soglia tra dentro e fuori. A volte basta un titolo per motivare le nostre scelte e per orientare la nostra lettura! Anche di questo avremo modo di parlare presto.

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“Goodbye, Columbus” (Philip Roth, 1959)

GBC

La prima volta che la vidi, Brenda mi chiese di tenerle gli occhiali. Poi avanzò fino all’orlo del trampolino e guardò confusamente nella piscina; fosse stata asciutta, miope com’era, non se ne sarebbe accorta. Si tuffò mirabilmente e dopo un attimo stava già tornando indietro a nuoto verso il bordo della piscina, con la testa dai capelli corti biondo rame alta sull’acqua e tesa davanti a lei come una rosa dal lungo stelo. Scivolò fino al bordo e poi fu accanto a me. – Grazie, – disse, con gli occhi umidi, ma non per l’acqua. Allungò una mano per prendere gli occhiali, ma non li inforcò  finchè non mi ebbe voltato le spalle per andarsene. La guardai mentre si allontanava. A un tratto si portò le mani dietro la schiena. Prese il fondo del costume tra il pollice e l’indice e rimise a posto quel po’ di carne che si era scoperta. Mi si rimescolò il sangue. Quella sera, prima di cena, le telefonai. (Einaudi, 2012. Trad. V. Mantovani).

[The first time I saw Brenda she asked me to hold her glasses. Then she stepped out to the edge of the diving board and looked foggily into the pool; it could have been drained, myopic Brenda would never have known it. She dove beautifully, and a moment later she was swimming back to the side of the pool, her head of short-clipped auburn hair held up, straight ahead of her, as though it were a rose on a long stem. She glided to the edge and then was beside me. “Thank you,” she said, her eyes watery though not from the water. She extended a hand for her glasses but did not put them on until she turned and headed away. I watched her move off. Her hands suddenly appeared behind her. She caught the bottom of her suit between thumb and index finger and flicked what flesh had been showing back where it belonged. My blood jumped.]

“La prima volta che la vidi, Brenda mi chiese di tenerle gli occhiali.” Assolutamente nulla di epico apre il primo racconto (omonimo) del primo libro pubblicato da Philip Roth nel 1959. Sarà immediato successo per l’autore di Newark.

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