“Ortiche” (Alice Munro, 2001)

Munro Nemicoecc MUNRO hateship

Nell’estate del 1979, entrai in cucina, a casa della mia amica Sunny nei pressi di Uxbridge, Ontario, e vidi un uomo in piedi davanti al tavolo di lavoro, intento a prepararsi un tramezzino al ketchup. 

Ho poi girato in macchina sulle colline a nord-est di Toronto con mio marito – il secondo, non quello che mi ero lasciata alle spalle quell’estate – e ho cercato la casa con svogliata insistenza, ho provato a rintracciare la strada su cui si affacciava, ma non ci sono mai riuscita. Sunny e suo marito la vendettero qualche anno dopo la mia visita. Era troppo lontana da Ottawa, dove abitavano, per funzionare come casa per le vacanze. I loro figli, una volta adolescenti, non avevano più avuto voglia di andarci. Inoltre richiedeva troppo lavoro di manutenzione, e Johnston, il marito di Sunny, nei fine settimana voleva giocare a golf. 

Il campo da golf l’ho trovato – credo sia quello giusto, anche se i bordi ineguali del green sono stati risistemati e la sede del circolo è di gran lunga più chic. (Einaudi Nemico, amico, amante … traduzione di Susanna Basso)

 [In the summer of 1979, I walked into the kitchen of my friend Sunny’s house near Uxbridge, Ontario, and saw a man standing at the counter, making himself a ketchup sandwich.

I have driven around in the hills northeast of Toronto, with my husband – my second husband, not the one I had left behind that summer – and I have looked for the house, in an idly persistent way, I have tried to locate the road it was on, but I never succeeded. It has been probably torn down. Sunny and her husband sold it a few years after I visited them. It was too far from Ottawa, where they lived, to serve as a convenient summer place. Their children, as thet became teenagers, balked at going there, And there was too much upkeep work for Johnston – Sunny’s husband – who liked to spend his weekends golfing.

I have found the golf course – I think it the right one, though the ragged verges have been cleaned up and there is a fancier clubhouse.  “Nettles” in Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage. 2001]

Una prima scena: l’incontro di colei che narra (il riferimento a “mio marito” nel secondo paragrafo ci fa capire che si tratta di una donna) con un uomo intento a prepararsi un sandwich nella casa di una amica. Il dove e il quando dell’incontro sono immediatamente specificati con precisione e il passato remoto colloca inequivocabilmente l’incontro in un altrove sia temporale che geografico. Il primo paragrafo, secco, preciso, con tono informativo si chiude con un dettaglio – il tramezzino al ketchup – che attira la nostra attenzione per la sua curiosa particolarità: è forse il particolare che rende l’uomo riconoscibile alla protagonista o si tratta del dettaglio che, adesso, nel presente del ricordare, la protagonista riconosce come il pretesto che ha favorito il dialogo tra i due e – magari, dato che da cosa nasce cosa, qualcos’altro? In una maniera o nell’altra, sentiamo istintivamente che in quell’incontro deve essere nascosto un dettaglio emozionale che spinge la protagonista, negli anni successivi a quella estate, a cercare con insistenza, seppur svogliata, di rintracciare la strada e la casa che hanno fatto da sfondo a quel giorno del 1989.

La specificazione buttata lì circa il marito – “il secondo, non quello che mi ero lasciata alle spalle” – con relativa puntualizzazione temporale – quell’estate – insinua in noi il dubbio che l’incontro accidentale con l’uomo del sandwich al ketchup possa essere stato la causa o concausa o goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’incrinarsi della relazione e della conseguente rottura tra i coniugi proprio quell’estate. Chissà. Queste prime righe provocano in noi delle domande e già evocano il sapore di una storia che già sappiamo sarà così intensa da essere, appunto, memorabile per la protagonista che vuole raccontarla. 

Tutti i dettagli della vendita della casa rispetto all’evolversi della situazione familiare di Sunny ci appaiono irrilevanti rispetto al tarlo che con nonchalance ci è stato già messo in testa. Ci aspettiamo – desideriamo – che ci venga detto di quell’uomo (gusti son gusti) e di cosa ha reso quell’incontro un evento che si è fissato nella memoria della protagonista. Il riferimento al titolo potrebbe essere contenuto nella constatazione che il campo da golf (nota) non ha più i bordi ineguali di quell’estate, a indicare che quella volta lì c’erano probabilmente delle ortiche. La ricerca dei luoghi di quell’estate da parte della protagonista fa da mappa per quello che ci aspettiamo di leggere – di quella casa, di quel campo da golf i cui bordi erano probabilmente infestati da ortiche, della sede del circolo più rustica e meno chic e di quell’indimenticato uomo che si prepara un panino al ketchup.

nota

I have found the golf course […], though the ragged verges have been cleaned up: la traduzione italiana di golf course (l’intero tracciato del campo da golf – il fairway) con green (che indica la parte che delimita la buca rasata e curatissima) mi sembra renda più difficile cogliere il riferimento proprio a quella porzione di prato che era “ragged”, cioè, grezzo, selvatico, diseguale e poteva contenere ortiche, che adesso non c’è più.

 

Pubblicato in Incipit | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Quando è un io ad accoglierci 2

Due prospettive

Ritorno sulla presenza di un io nelle prime righe di un romanzo, per approfondire ulteriormente questa scelta basilare da parte dello scrittore. Quando richiesti di parlare della genesi di un dato romanzo, è tipico da parte degli scrittori accennare all’indecisione circa questa questione: fino a quando la scrittura non è ancorata ad un dato punto di vista (e relativo pronome personale), la storia non decolla. Effettivamente, a ben pensarci, le storie dipendono in maniera forte, essenziale, dalla prospettiva di chi le racconta. Facciamo esperienza quotidiana di come la stessa storia cambi a seconda dell’occhio che ha guardato gli eventi: lo sanno i tribunali, lo sanno i giornalisti di cronaca, lo sappiamo anche noi. Se solo ci pensiamo un momento, ci rendiamo conto che non c’è descrizione o evento che non cambi – anche solo leggermente – quando cambia il narratore. La dinamica di un incidente, il resoconto di cosa ha incrinato una relazione, o attivato un battibecco o fatto scattare un colpo di fulmine: tutto il nostro quotidiano dipende dalla prospettiva attraverso la quale viene raccontato: non esiste narrazione che possa dirsi neutra. Possiamo radicalizzare la faccenda e dire che non esiste storia senza che in essa si palesi una prospettiva. Avremo modo di chiederci se questo vale anche per i casi in cui il narratore è, come si suol dire, onnisciente.

Ribadito questo, non è scritto da nessuna parte che il pronome con relativo proprietario che ci accoglie ci accompagnerà per l’intero corso del libro. Se – forse – la situazione standard è proprio quella della continuità della prospettiva, ci sono moltissimi casi in cui le prospettive di diversi personaggi si alternano o si avvicendano. E noi lettori come negoziamo questa eventualità? Affidandoci al testo che è il primo, principale maestro che ci può guidare nei meandri della sua storia. Le eventuali prospettive multiple, se possono in un primo momento spiazzare, diventano poi un bellissimo modo di ricordarci una caratteristica essenziale della nostra vita e della realtà che viviamo fatta, appunto, di punti di vista che si intrecciano a volte rafforzandosi a volte contraddicendosi. E un modo, magari, di educarci alla loro accoglienza.

 

Pubblicato in Soste | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Il senso di una fine (Julian Barnes, 2011)

978880621156GRA

Uno

Ricordo, in ordine sparso:

  • un lucido interno polso;
  • vapore che sale da un lavello umido dove qualcuno ha gettato ridendo una padella rovente;
  • fiotti di sperma che girano dentro uno scarico prima di farsi inghiottire per l’intera altezza di un edificio;
  • un fiume che sfida ogni legge di natura, risalendo la corrente, rovistato onda per onda dalla luce di una decina di torce elettriche;
  • un altro fiume, ampio e grigio, la cui direzione di flusso è resa ingannevole da un vento teso che ne arruffa la superficie;
  • una vasca da bagno piena d’acqua ormai fredda da un pezzo, dietro una porta chiusa.

L’ultima immagine non l’ho propriamente vista, ma quel che si finisce di ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni.
(Einaudi, 2011, traduzione di Susanna Basso)

[The Sense of an Ending

One

I remember, in no particular order:

  • a shiny inner wrist;
  • steam rising from a wet sink as a hot frying pan is laughingly tossed into it;
  • gouts of sperm circling a plughole, before being sluiced down the full length of a tall house;
  • a river rushing nonsensically upstream, its wave and wash lit by half a dozen chasing torchbeams;
  • another river, broad and grey, the direction of its flow disguised by a stiff wind exciting the surface;
  • bathwater long gone cold behind a locked door.

This last isn’t something I actually saw, but what you end up remembering isn’t always the same as what you have witnessed.]

Una vera e propria lista con tanto di trattino occupa (quasi) l’intero primo paragrafo. L’elenco è retto e motivato dal verbo che apre il libro – “ (io) ricordo”. La posizione forte di questo verbo al presente è amplificata dal suo stare per un momento da solo – i contenuti del ricordare sono infatti spostati di una riga, nell’elenco appunto. Un io che ricorda, nel presente della narrazione, dunque, subito al centro, per intonare – forse – tutto quello che segue. Facendoci aiutare dal titolo potremmo immediatamente tentare un’ipotesi: potrebbe trattarsi di un libro guidato dal ricordo di un protagonista che giunto alla fine guarda indietro per dare senso alla sua vita. I ricordi che emergono sono sì in ordine sparso – ma sono pur sempre prima di tutti gli altri che possiamo presupporre occuperanno le pagine che seguono. Possiamo ipotizzare, quindi, che essi rappresentino dei fermo-immagine di eventi intorno ai quali si snoderà l’esercizio di memoria alla ricerca di un senso che ci aspettiamo seguirà. Non sappiamo ancora se nel proseguo verrà mantenuto “l’ordine sparso” o se la ricostruzione prenderà un taglio cronologico. Non sappiamo neanche (ma siamo forse disposti a scommetterci) se tutte le scene o immagini evocate saranno illuminate e collocate in un contesto. Per il momento possiamo dire che tranne il primo, decisamente criptico (“un lucido interno polso” fa pensare, per contrasto, a polsi non lucidi, quelli degli internati o quelli di coloro che hanno tentato di togliersi la vita tagliandoseli), tutti gli altri hanno a che fare con l’acqua: con un po‘ di fantasia possiamo noi stessi costruire delle storie intorno ad ognuno o per lo meno immaginare una tonalità: una scena familiare leggera, l’evocazione simbolica della vita potenziale che si perde, un dramma che ha attivato una comunità, la natura sfuggente ed enigmatica, un momento di rilassamento precluso e perduto. O molte altre a seconda di quanto ognuno di noi si lasci trasportare dall’evocazione. Perchè (quasi) tutte hanno a che fare con l’acqua – simbolo archetipo di vita, del femminile, del pre-razionale? Difficile dire a questo punto. Come pure è forse azzardato (ma plausibile) scommettere sul genere dell’io: propenderei per il maschile, senz’altro influenzata dall’autore del libro, ma anche perchè mi risulta difficile associare il ricordo dei fiotti di sperma nello scarico ad una donna (ma forse ho solo poca fantasia).

L’elenco si chiude con una importante precisazione che riguarda il rapporto tra vedere e ricordare: non tutto ciò che vediamo diventa ricordo e viceversa. In maniera velata, il narratore ci dice che un (non-ancora) esplicitato criterio di selezione guiderà il ricordare e che il ricordare potrà anche avere a che fare con “materiale” non visto in prima persona: se si tratterà di materiale immaginato, intuito, presupposto, vedremo. Siamo stati avvisati che la componente soggettiva avrà un certo peso – come in tutte le ricostruzioni, d’altra parte.

Pubblicato in Incipit | Contrassegnato , , | Lascia un commento