All’inizio non c’era nulla.
Poi c’era tutto. E poi, in un parco sopra una città occidentale dopo il crepuscolo, piovono messaggi nell’aria. Una donna è seduta per terra, appoggiata a un pino. La corteccia preme contro la sua schiena, dura come la vita. Gli aghi profumano l’aria e un’energia freme nel cuore del legno. Le sue orecchie si sintonizzano sulle frequenze più basse. L’albero sta dicendo delle cose, in parole che precedono le parole.
Dice: Il sole e l’acqua pongono domande cui vale continuamente la pena rispondere.
Dice: Una buona risposta deve essere reinventata tante volte, da zero.
Dice: Ogni granello di terra ha bisogno di un nuovo modo in cui venire stretto tra le dita. Esistono più modi di mettere rami di quanti qualunque ginepro nella Virginia riuscirà mai a trovare. Un cosa può spostarsi ovunque, stando semplicemente ferma.
La donna fa esattamente questo. Segnali piovono intorno a lei come semi.
Quella notte la conversazione si spinge lontano. Le curvature degli ontani parlano di antichi disastri. Fiori di castagno chinquapin simili a spighe fanno cadere il loro polline; presto diventeranno frutti spinosi. I pioppi fanno eco al brusio del vento. I cachi e i noci esibiscono le loro lusinghe e i sorbi rossi i loro grappoli. Querce secolari sventagliano presagi di maltempo futuro. Le diverse centinaia di biancospini comuni si fanno beffe del nome comune che sono costretti a condividere. Gli allori insistono sul fatto che persino la morte non è nulla di cui doversi preoccupare troppo.
Qualcosa nel profumo dell’aria suona come un ordine per la donna: Chiudi gli occhi e pensa a un salice. Il pianto che vedi sarà un’imitazione imprecisa di quello vero. Immagina la spina di un’acacia. Non riuscirai a figurarti niente di abbastanza acuminato. Cos’è che è sospeso sopra di te? Cos’è che fluttua sulla tua testa – Ora?
Ecco unirsi alberi persino più lontani: Tutti i modi in cui ci immagini – mangrovie stragate su trampoli, l’asso di picche capovolto di una noce moscata, i tronchi nodosi dell’albero elefante, il missile dritto di una Shorea robusta – sono sempre delle amputazioni. Vi manca la metà, e anche di più. C’è sempre tanto sottoterra quanto sopra la superficie.
E’ questo il guaio con le persone, il problema delle loro radici. La vita scorre di fianco a loro, invisibile. Proprio lì, proprio accanto. Creando il terreno. Il ciclo dell’acqua. Negoziando sostanze nutrienti. Formando il clima. Costruendo l’atmosfera. Nutrendo e curando e riparando più specie di creature di quante le persone riescano a contare.
Un coro di legno vivente intona alla donna: Se la tua mente fosse una cosa un po’ più verde, ti sommergeremmo di significato.
Il pino a cui è appoggiata dice: Ascolta. C’è una cosa che devi sentire. (La nave di Teseo, traduzione di Licia Vighi).
Così comincia l’ultimo romanzo dello scrittore nord-americano Richard Powers, Il sussurro del mondo (The Overstory) che gli è valso il premio Pulitzer per la letteratura 2019.
Non possiamo che essere spiazzati da questa apertura e chiederci: all’inizio, quando? Poi, quando? E il poi che segue il primo poi e introduce un luogo e una presenza umana, quando? Proprio questa indeterminatezza temporale associata all’assolutezza di una assenza (“nulla”) prima, e di una presenza (“tutto”) dopo, ci dà un’importante informazione: Powers vuole dare al suo romanzo una dimensione mitica, collocandolo su uno sfondo che evoca le origini dell’universo. Come tutte le storie che si occupano delle origini, Powers vuole che il suo romanzo ingaggi la questione fondativa del senso di quanto esiste. Il senso che propone in questo prologo, che non potevo che presentare nella sua interezza, si gioca – tutto – su un rovesciamento del nostro senso comune delle cose.
Prima del rovesciamento più ovvio – è il non umano che parla (il pino) e l’umano (la donna) che ascolta i messaggi che le piovono addosso – notiamo un piccolo dettaglio che va nella stessa direzione e ne prepara il dispiegamento: è la corteccia che preme contro la schiena della donna e non viceversa. L’albero ci è presentato come senziente e agente e quindi come soggetto: questo è il centro del mondo che vuole presentarci Powers, potremmo dire, dato l’inizio mitico, il nuovo mondo che Powers vuole che impariamo a vedere e sentire. Il mondo che conosciamo, poggiato su ingredienti con i quali possiamo facilmente entrare in sintonia e raffigurare – una città occidentale, il crepuscolo, una donna, un albero, l’aria profumata dagli aghi di pino – ci viene presentato come abitato da una presenza, prima singola, poi plurale, che non si comporta come ci aspettiamo.
Gli alberi, i boschi, le foreste, nei romanzi sono tipicamente lo sfondo dell’agire umano, spesso rappresentano il correlativo oggettivo, cioè lo specchio, dei sentimenti dei personaggi (la selva oscura che apre la commedia dantesca, l’aridità senza speranza dell’inizio di Furore di Steinbeck, per citare due esempi) o il sogno di uno spazio in cui l’uomo può ritrovare se stesso o perdersi. Qui, la questione è ben diversa: non solo il pino parla “in parole che precedono parole” ma manifesta una sapienza che racconta quello che ci circonda come non siamo in grado di coglierlo, immersi come siamo in un mondo antropocentrico che tutto domina perché tutto crede di conoscere. Il dettaglio della nominazione – gesto di impero e di possesso per eccellenza –la dice lunga su quanto non sappiamo e su quanto la nostra pretesa di dominio sia in fin dei conti un sopruso che costringe in una tassonomia miope, approssimativa e quindi irrispettosa: “le diverse centinaia di biancospini comuni si fanno beffe del nome comune che sono costretti a condividere.” Gli umani – secondo il pino – oltre che essere avvelenati (e inebriati) dal potere di nominare e possedere, sono zavorrati anche da una immaginazione povera, che amputa il mondo non umano che li circonda: “vi manca la metà, e anche di più.” Manca la metà se non di più perché questa metà non è immediatamente visibile agli occhi, perché va indagata con pazienza, perché va cercata con atteggiamento di umile ascolto, un ascolto che richiede – necessariamente e preliminarmente –ammettere di non sapere e di aver bisogno di essere istruiti. Il guaio con le persone, la radice di tutto (“root problem” nell’originale, tradotto qui infelicemente “il problema delle loro radici”) è proprio il non vedere – “la vita scorre di fronte a loro, invisibile.”
Questa donna (sapremo chi è quando torneremo a questa scena verso la fine del libro) diventa il modello di persona per cui Powers scrive, ovvero, potremmo azzardare, la persona in cui Powers spera il lettore si trasformi dopo aver fatto l’esperienza di questo romanzo potente e polifonico: un persona capace di sintonizzarsi sulle frequenze più basse, capace di sentire le cose dette “in parole che precedono le parole”, quelle parole che dischiudono la verità della nostra esistenza – condivisa profondamente con il non umano – su questo pianeta.
La chiusa del prologo che non dovremmo dimenticarci quando ci immergiamo nelle storie di memorabili personaggi e di memorabili alberi che abitano le pagine de Il sussurro del mondo, ritorna alla tonalità mitica dell’inizio. “Ascolta” rievoca infatti nientemeno che la consegna dei dieci comandamenti all’inizio del capitolo VI del Deuteronomio (“Ascolta Israele”). La suggestione provocatoria che Powers ci propone qui è quindi duplice: quella di considerare il racconto che si dipana nelle 400 pagine che seguono come il frutto del dire del pino e quella di considerare questo dire come il luogo salvifico della comprensione del mondo che abitiamo, della nostra identità, che se solo diventerà “più verde”, traboccherà di significati.
Grazie per questa invitante introduzione al romanzo di Powers, che fino ad oggi non ho avuto occasione di leggere. Le parole dell’autore, e le sue nel commento, mi hanno riportato con la mente a uno dei capolavori della poesia italiana: La pioggia nel pineto.
Quell’imperativo – “Ascolta” – su cui si chiude il brano da lei riportato è anche l’apertura della lirica dannunziana. È vero, nella poesia il monito – che, si può dire, “suona come un ordine per la donna” – proviene dall’Io lirico, ma ciò è solo un momento, una rottura che permette alla natura di prendere immediatamente la parola.
Così, il “bosco” prende a parlare sulle “soglie” del significato, che sono linea di demarcazione metafisica tra umano e non-umano; linea che si accinge ad essere spezzata. La vegetazione parla, e lo fa tramite un linguaggio proprio, in “parole che precedono le parole”, “parole più nuove/che parlano gocciole e foglie/lontane”, mentre il linguaggio degli uomini viene esautorato (“non odo/parole che dici/umane”).
Il linguaggio naturale è sommesso, “su basse frequenze”, “più sordo e più fioco”, e pertanto richiede il silenzio, una disposizione ricettiva; è sensuale, stimolante a tutti i livelli della percezione; e imaginifico (epiteto del D’Annunzio!), generatore di visioni. Non a caso alla donna di Powers si richiede di immaginare: “Immagina la spina dell’acacia”, e poco più sotto: “Tutti i modi in cui ci immagini…”.
Il parallelo tra i due testi vale anche sul piano del ribaltamento prospettico che vede coinvolti soggetto e oggetto. Nella lirica il principale agente è, appunto, un agente atmosferico: la pioggia. È la pioggia a suscitare gli eventi, ad animare lo scenario, per esempio facendo del pino, del mirto e del ginepro degli “stromenti” sotto le sue “innumerevoli dita”. Gli individui umani, invece, subiscono quasi passivamente il processo metamorfico che va spogliandoli della loro stessa individualità, ricongiungendoli alla natura in un’unità primigenia (“il verde vigor rude ci allaccia i malleoli…”): essi non bagnano, sono bagnati.
L’unione panica con la natura – rinnovata comunione con le radici originarie – che nell’incipit di Powers è auspicata (“Se la tua mente fosse una cosa un po’ più verde, ti sommergeremmo di significato”), è finalmente raggiunta nei versi di D’Annunzio, in cui gli individui sono immersi nello “spirto silvestre,/d’arborea vita viventi”. Ma sarà davvero così? Forse la “vita che scorre di fronte a loro, invisibile” è destinata a rimanere tale, e il sussurro del mondo è destinato a rimanere inascoltato. Forse il tratto che ci separa dall’origine – dalla verità dell’esistenza – è un abisso che non può essere colmato, rinviante a un tempo che non può essere ritrovato; e ogni discorso che affermi il contrario non sarà, allora, che “favola bella”, atta a illuderci oggi come ieri.
Grazie Andrea, di questa bella lettura de “La pioggia nel pineto.” Ci sono degli echi senza dubbio intriganti, ma mi sembra che il sottotesto sia piuttosto diverso. perché le parole nuove che il poeta sente (odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie) non arrivano, come in Powers, a dire. Il martellante “dice” seguito dalle parole che il pino indirizza alla donna permette al pino di articolare una visione del mondo: il pino dà voce in maniera letterale alla realtà invisibile in maniera esplicita e – potremmo dire – dialettica (“è questo il guaio con le persone” “tutti i modi in cui ci immagini sono amputazioni”). Il rovesciamento è in Powers assoluto perché riguarda il dire, locus umano per eccellenza. Non colgo la stessa rivoluzionaria proposta nel capolavoro dannunziano.