La prima volta che la vidi, Brenda mi chiese di tenerle gli occhiali. Poi avanzò fino all’orlo del trampolino e guardò confusamente nella piscina; fosse stata asciutta, miope com’era, non se ne sarebbe accorta. Si tuffò mirabilmente e dopo un attimo stava già tornando indietro a nuoto verso il bordo della piscina, con la testa dai capelli corti biondo rame alta sull’acqua e tesa davanti a lei come una rosa dal lungo stelo. Scivolò fino al bordo e poi fu accanto a me. – Grazie, – disse, con gli occhi umidi, ma non per l’acqua. Allungò una mano per prendere gli occhiali, ma non li inforcò finchè non mi ebbe voltato le spalle per andarsene. La guardai mentre si allontanava. A un tratto si portò le mani dietro la schiena. Prese il fondo del costume tra il pollice e l’indice e rimise a posto quel po’ di carne che si era scoperta. Mi si rimescolò il sangue. Quella sera, prima di cena, le telefonai. (Einaudi, 2012. Trad. V. Mantovani).
[The first time I saw Brenda she asked me to hold her glasses. Then she stepped out to the edge of the diving board and looked foggily into the pool; it could have been drained, myopic Brenda would never have known it. She dove beautifully, and a moment later she was swimming back to the side of the pool, her head of short-clipped auburn hair held up, straight ahead of her, as though it were a rose on a long stem. She glided to the edge and then was beside me. “Thank you,” she said, her eyes watery though not from the water. She extended a hand for her glasses but did not put them on until she turned and headed away. I watched her move off. Her hands suddenly appeared behind her. She caught the bottom of her suit between thumb and index finger and flicked what flesh had been showing back where it belonged. My blood jumped.]
“La prima volta che la vidi, Brenda mi chiese di tenerle gli occhiali.” Assolutamente nulla di epico apre il primo racconto (omonimo) del primo libro pubblicato da Philip Roth nel 1959. Sarà immediato successo per l’autore di Newark.
Uno sguardo, un gesto, una voce che racconta un primo incontro al tempo passato. Brenda è al centro, guardata, descritta. Il personaggio che parla in prima persona (ancora senza nome come è tipico delle situazioni narrative in cui c’è un “io” che racconta (nota 1) semplicemente osserva – i verbi di azione sono tutti a carico di Brenda, che chiede, avanza, si tuffa, ritorna nuotando, scivola vicino al nostro narratore, lo ringrazia, si riprende gli occhiali, si allontana, inforca gli occhiali e si risistema il costume. La centralità di Brenda in questa apertura sembra inequivocabile. E certo non voglio negarla. E’ importante, però, non lasciarsi scappare la fondamentale “attività” del personaggio che descrive questo primo incontro (promessa di una storia che è destinata a proseguire altrimenti la scena sarebbe stata introdotta da “l’unica volta”): l’esistenza di Brenda dipende in maniera assoluta da questo personaggio che ce la racconta. Molto semplicemente, Brenda per noi esiste perchè questo “io” ce ne parla (nota 2). Da un lato, è da subito evidente per il lettore attento che il narratore mescola alle sue prime impressioni su Brenda anche informazioni che possiamo presupporre acquisirà più avanti nella loro amicizia/relazione (non possiamo ancora sbilanciarci su questo anche se la chiusura del paragrafo è una chiara indicazione di quanto colpo abbia fatto la ragazza sul nostro narratore): mi riferisco, per esempio, a quel “miope com’era” che facciamo fatica ad immaginare sia immediatamente evidente in due gesti. Dall’altro, a ben vedere, percepiamo che il narratore ci mette del suo, cioè colora la sua descrizione: mi riferisco alla similitudine tra la testa di Brenda appena uscita dall’acqua e “una rosa dal lungo stelo.”
Il paragrafo si chiude (nota 3) con un gesto da parte di Brenda che “rimescola” il sangue di colui che ci racconta la scena e possiamo presupporre, l’intera storia.
La chiusura del paragrafo sembra suggerire che la telefonata dipende da questo rimescolamento provocato a sua volta da un gesto che nella sua banalità (lo riconosciamo assolutamente come normale, se non addirittura come tipico) non può che farci pensare (siamo pur sempre in apertura e quindi in un contesto di alta significatività delle scelte autoriali) ad una traiettoria tematica: la carne che si scopre, la fisicità di due giovani tutta da gestire alla fine degli anni cinquanta.
Completamente opaco il titolo. C’entra l’America, c’entra un addio, qualcosa che è passato e non torna? Non ci resta che leggere.
Note
1. sui nomi dei narratori di prima persona
Se io parlo, tipicamente, non mi chiamo, cioè non dico il mio nome. Stessa cosa nelle storie quando il narratore parla in prima persona. A meno che l’autore non abbia un motivo particolare per lasciare il suo narratore senza nome (un esempio celebre della letteratura americana del novecento è Invisible Man di Ralph Ellison), il nome ci verrà rivelato alla prima occasione utile – il trucco classico è un dialogo in cui il narratore viene chiamato per nome, e voila, il gioco è fatto! Detto questo, non posso che citare un famosissimo controesempio: “Call me Ishmael” apre Moby Dick, il capolavoro di Herman Melville.
2. sull’esistenza dei personaggi
Nonostante ci affezioniamo ai personaggi dei libri che ci piacciono e patiamo e sorridiamo con loro, nonostante ci dispiaccia salutarli quando il libro finisce, nonostante, in sintesi, proviamo per loro quello che proviamo per le persone reali, i personaggi dei libri sono … di carta, cioè non esistono.
Con questo intendo solo sottolineare che dipendiamo da coloro che narrano la storia per sapere come sono fatti, cosa pensano, di che cosa hanno paura eccetera eccetera i personaggi. Non abbiamo modo di bussare loro la porta per toglierci una curiosità o verificare la nostra interpretazione di un loro comportamento. Questo, naturalmente, non cambia nulla sul nostro fronte esperienziale: i personaggi ci emozionano quindi sono per noi emozionalemente veri. Avremo modo di approfondire le implicazioni di questa nostra assoluta dipendenza cercando di districarci sulla faccenda tanto discussa dai narratologi dell’affidabilità (reliability) dei narratori.
3. su come finisce il paragrafo.
Come finisce quale paragrafo?
E’ interessante notare come il paragrafo nella versione originale si chiuda prima del riferimento alla telefonata serale. Questa che può essere considerata una minima differenza attira la nostra attenzione su quel gesto fondamentale che è la traduzione. Dipendiamo dalla traduzione in moltissimi casi – cioè per tutti quei libri di cui purtroppo non conosciamo la lingua originale. Che sarà mai in fin dei conti andare a capo prima o poi? Proviamo a soffermarci un momento. L’originale chiude con il riferimento al sangue che si rimescola nelle vene del narratore al guardare Brenda che si sistema il costume e copre la striscia di carne che il movimento in piscina aveva scoperto. Roth è qui che vuole che ci soffermiamo, qui si chiude l’inizio, con quest’ultimo fondamentale ingrediente: il corpo di Brenda, il coinvolgimento del narratore.
Una risposta a “Goodbye, Columbus” (Philip Roth, 1959)