Ho già avuto modo di scrivere in queste pagine dell’inizio di Pastorale americana di Philip Roth. Come sottolineavo in quella occasione, nell’inizio è contenuto tutto quello che struttura l’intero romanzo dell’autore americano: la figura mitica del protagonista – Seymour Irving Levov, conosciuto da tutti con il suo soprannome, lo svedese, a indicare la peculiarità del suo aspetto — la voce narrante che ricorda in prima persona l’infatuazione per lo svedese condivisa da tutta la sua tribù di ebrei americani in un momento storico – gli anni della seconda guerra mondiale – così tragici e minacciosi.
Ieri sera sono andata al cinema a vedere American Pastoral di Ewan McGregor uscito da poco nelle sale italiane e non posso che riprendere il discorso di quell’inizio e condividere con voi qualche ulteriore riflessione.
Inutile dire che le trasposizioni cinematografiche dei libri che amiamo sono potenzialmente difficili da digerire. Quanto più significativo è stato il nostro coinvolgimento nella lettura di un dato libro, tanto più resistenti siamo ai necessari cambiamenti che il differente mezzo richiede. E se le cose stanno così, non potevo che aspettarmi un’ardua digestione …
Il nocciolo del capolavoro di Roth sta nella premessa, una premessa che nel romanzo occupa la prima novantina di pagine: Nathan Zuckerman, lo scrittore i cui ricordi di bambino aprono il romanzo, incontra alla festa del 45esimo anniversario di quella che noi chiamiamo maturità, il fratello dello svedese, Jerry Levov, e viene a sapere non solo che lo svedese è morto, ma che ha avuto una vita infernale a causa del padre, impossibile da soddisfare, delle insaziabili mogli (da notare il plurale) e “della piccola assassina, quel mostro di sua figlia.” Sbalordito da queste notizie che così poco si attagliano alla “mistica dello svedese” fondata sul suo aspetto, sulla sua bravura sportiva senza pari e sulla moglie bellissima, lo scrittore diventa via via più ossessionato dalla storia dello svedese e non può che tentare di illuminare il suo dilemma esistenziale (come è potuto succedere tutto questo a uno come lui?) cercando di ricostruirne la traiettoria a partire dalle poche informazioni che gli ha dato Jerry e dalle ricerche che ha fatto. Come il primo paragrafo del romanzo mette immediatamente in luce, la storia è incentrata sulla ricostruzione che Nathan Zuckerman fa dello svedese. Nella Pastorale americana di Philip Roth, lo svedese è profondamente, quintessenzialmente, lo svedese di Zuckerman.
Ebbene, possiamo dire che il film ben comincia perché si apre su Zuckerman che arriva al 45esimo anniversario e si incanta nel guardare la vetrina dei trofei conquistati dallo svedese – il tutto con voce fuori campo che recita proprio le parole dell’incipit del romanzo. Quindi, la mistica dello svedese così come è percepita da Zuckerman è in scena da subito così come deve essere se si intende mantenere una certa fedeltà al romanzo. Il regista mi sembra faccia lo sforzo di suggerire che la storia dello svedese che segue nasce dall’interesse di Zuckerman, con la scelta di sfumare il racconto che Jerry fa allo scrittore amico e di mettere così in evidenza il pensiero che va formandosi nella mente di Zuckerman mentre ascolta trafitto quanto Jerry gli sta dicendo: vuole sapere tutto della storia dello svedese (o qualcosa del genere – vado a memoria).
La premessa si chiude e la storia dello svedese comincia dal paradiso della sua esistenza come fidanzato della splendida Dawn che regge il confronto con il futuro suocero – Lou Levov.
Pazienza che questa scena avvenga molto tardi nel romanzo, come pazienza per gli altri numerosi dettagli spostati o cambiati (niente bacio da parte dello svedese all’insistente figlia undicenne, per esempio!); il film mantiene una certa somiglianza di fondo … almeno fino ad un certo punto. Il fatto è che non si tratta di un punto qualsiasi, ma del punto del non ritorno, di una distanza incolmabile con il romanzo.
Il regista decide di chiudere il film con il funerale dello svedese e con il fantomatico ritorno della figlia. Forse il regista ha sentito l’esigenza di tornare su Zuckerman e chiudere quindi a cerchio la sua storia. Ebbene, il romanzo non può chiudersi con il funerale dello svedese, né tanto meno con il ritorno della figlia perché deve chiudersi con una domanda, non con una risposta. Il romanzo si chiude letteralmente con un punto di domanda ad indicare inequivocabilmente che nonostante tutto il lavoro di ricerca e di ricostruzione immaginifica che ha impegnato per mesi Zuckerman, la distruzione della vita dello svedese rimane e non può che rimanere un mistero. Il cercare tragico e ossessivo dello svedese e il cercare vano del suo amico scrittore, intrappolato nella sua aura magica rimangono sospesi, cristallizzati in un potenziale, tragico, non senso – figura del nostro stesso potenziale non senso. La chiusa evidenzia e amplifica uno dei temi portanti del romanzo, quindi, la vanità del cercare risposte alle domande cruciali della vita e del suo senso.
Ma di cosa mi sto lamentando? Questo – in fin dei conti – non è lo svedese di Zuckerman (e di Roth), ma lo svedese di Ewan McGregor.
Forse devo accontentarmi di un Fernet …