Città in fiamme (Garth Risk Hallberg, 2015)

Città in fiammePrologo

A New York puoi farti consegnare qualunque cosa a domicilio. Questa, perlomeno, è la regola a cui mi attengo. Siamo in piena estate, sono nel pieno della vita. Mi trovo in un appartamento altrimenti disabitato sulla Sedicesima Ovest, ascolto il placido ronzio del frigo nella stanza accanto, sebbene non contenga che un mezzo panetto di burro del Mesozoico lasciato dai proprietari prima di partire per il mare, tra quaranta minuti potrò mangiare più o meno tutto quello che mi pare. Quando ero giovane — più giovane, dovrei dire — si poteva ordinare anche la droga. Biglietti da visita con il prefisso 212 e quell’unica scritta CONSEGNA A DOMICILIO, o, più spesso, qualche stronzata a proposito di massaggi terapeutici. Non posso credere di averlo dimenticato.

D’altronde adesso è una città diversa, o è la gente a volere cose diverse. I cespugli di Union Square che nascondevano lo spaccio non ci sono più, e neppure i telefoni pubblici da dove si chiamava lo spacciatore. Ieri pomeriggio, quando sono passato di lì per fare una pausa, c’erano dei ballerini impegnati in una danza al rallentatore sotto gli alberi rivitalizzati. Famigliole sedute in ordine sui teli, in un una luce vinosa. Continuo a vedere scene simili dappertutto, arte pubblica difficile da distinguere dalla vita pubblica, auto a pois oziosamente parcheggiate in Canal Street, edicole infiocchettate come pacchi dono. Quasi che i sogni potessero essere piatti alternativi nel menu delle esperienze disponibili. Strano a dirsi, però, l’effetto di questa razionalizzazione di ogni ultimo desiderio, il molto del molto di questa città di oggi, è ricordarti che quello che vuoi non è quello che troverai là fuori. (Mondadori, 2016, traduzione di Massimo Bocchiola)

[Prologue

In New York, you can get anything delivered. Such, anyway, is the principle I’m operating on. It’s the middle of the summer, the middle of life. I’m in an otherwise deserted apartment on West Sixteenth Street, listening to the placid hum of the fridge in the next room, and though it contains only a mesozoic half-stick of butter my hosts left behind when they took off for the shore, in forty minutes I can eat more or less whatever I can imagine wanting. When I was a young man—younger, I should say—you could even order in drugs. Business cards stamped with a 212 number and that lonesome word, delivery, or, more usually, some bullshit about therapeutic massage. I can’t believe I ever forgot this.

Then, again, it’s a different city now, or people want different things. The bushes that screened hand-to-hand transactions in Union Square are gone, along with the payphone you’d use to dial your dealer. Yesterday afternoon, when I walked over there for a break, modern dancers were making slo-mo commotion beneath the revitalized trees. Families sat orderly on blankets, in wine-colored light. I keep seeing this stuff everywhere, public art hard to distinguish from public life, polka-dot cars idling by on Canal, newsstands ribboned like gifts. As if dreams themselves could be laid out like options on the menu of available experience. Oddly, though, what this rationalizing of every last desire tends to do, the muchness of this current city’s muchness, is remind you that what you really hunger for is nothing that you’re going to find out there. ]

Le oltre 900 pagine che costituiscono l’edificio romanzesco di Città in fiamme sono precedute da un’anticamera di cui leggiamo qui i primi due paragrafi. Trattandosi di un prologo che, per la sua natura intrinseca, si pone esplicitamente come un incipit, dovremmo – a rigore – leggerlo tutto. Opto per il taglio ai due primi paragrafi per verificare assieme a voi se riusciamo, lo stesso, a cogliere delle suggestioni, delle note dominanti.

“A New York puoi farti consegnare qualunque cosa a domicilio” – beh, potremmo anche fermarci qua, tanto è densa questa breve frase d’apertura. Siamo a New York, e la primissima cosa che ci viene detta dopo questa collocazione spaziale che dà un nome alla città del titolo, già di per sè sufficientemente esplicita (si riconosce la sagoma dell’Empire State Building) non riguarda i grattacieli o Central Park, ma riguarda un dettaglio che dice come si sta in questo posto: ogni desiderio diventa qui una realtà. A New York c’è ogni cosa tu possa volere e ogni cosa che tu possa volere può raggiungerti lì dove sei, fino alla tua porta. New York si configura immediatamente con una città in cui domanda e offerta sembrano poter coincidere, anche la tua specifica domanda, come la seconda persona suggerisce. “Puoi” se vuoi: una città in cui l’unica misura sembra coincidere con il limite che tu stesso ti imponi. Oltre al cibo – la consegna a domicilio più ovvia – il riferimento alla droga va proprio in questa direzione.

Ma non è questa la città del presente della narrazione di questo prologo. La voce narrante che sta parlandoci in prima persona ci fa subito sapere che quella New York – adesso – è diversa. Qui si giocano – intersecate – diverse suggestioni, ognuna di per sé rappresentativa di innumerevoli trame possibili: il passato e il presente coniugati attraverso due pezzi da novanta delle narrazioni, cioè, il tema del ritorno e la memoria. Colui che racconta ritorna a New York e questo ritorno sembra possa essere un punto prospettico privilegiato per raccontare la città e – chissà – se stesso. Non si tratta però dello sguardo che possiamo presupporre distaccato di una persona avanti con gli anni, ma dello sguardo di una persona che vive ancora il presente come pienezza e non è quindi ripiegato sul passato come unico luogo di senso. L’io che racconta (senza un nome fino alla fine del prologo) guarda la città della sua più acerba giovinezza che gli si presenta ambiguamente oscillante tra libertà di espressione e ostentazione, tra apparenza e sostanza, tra pieno e vuoto. I sogni sembrano anch’essi caduti nella rete della mercificazione. Il risultato del “qualsiasi cosa alla tua porta” – il menù anche per i sogni – non poi così paradossalmente, risulta essere un memento che quello che davvero vuoi non è poi così alla tua portata, neanche qui a New York. Il mito della città incrinato già al secondo paragrafo del prologo di una romanzo di 900 pagine? In un certo senso sì – d’altra parte questa città è annunciata in maniera inequivocabile dal titolo del libro come una città in fiamme. In italiano si perde la suggestione dell’eccitazione insita nell’on fire dell’originale e rimane il fuoco, quello suggerito dai fuochi d’artificio della copertina, ma anche il fuoco a cui inevitabilmente subito pensiamo, quello degli incendi e delle barricate.

Dunque se dovessimo fare il nostro solito esercizio e dire che cosa questo incipit sembra prometterci, non ci resta che sbilanciarci scommettendo su un romanzo che riguarderà la città almeno quanto i suoi protagonisti: New York tema e sfondo del racconto probabilmente retrospettivo (il prologo fa un esplicito riferimento al 1977) di vite che dovranno giocarsi sulle oscillazioni ambigue che abbiamo elencato sopra alla ricerca – forse vana – di quello che la città – forse – non sarà in grado di dare.

 

Garth Risk Hallberg ha presentato Città in fiamme alla nona edizione di Incroci di civiltà. Potete vedere qui la conversazione che si è tenuta all’Auditorium Santa Margherita, il 31 aprile scorso.

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