Una delle primissime (e cruciali) informazioni che un incipit ci offre riguarda i pronomi personali. Basta di solito il primo paragrafo, infatti, per dirci se stiamo cominciando a leggere un libro in cui c’è un io che parla (cioè il pronome di prima persona singolare è presente) o no. Due dei tre inizi che ho presentato fin qui ruotano intorno ad un “io.”
“La prima volta che la vidi, Brenda mi chiese di tenerle gli occhiali” – intona “Goodbye, Columbus” di Philip Roth. “Io pure. Quando arrivo a Scauri non penso più al mare” – troviamo nell’inizio di Spiaggia libera tutti.
L’alternativa a questa opzione (nota) è la cosiddetta terza persona che abbiamo incontrato in “Eli, il fanatico”: “Leo Tzuref sbucò da dietro una colonna bianca per dare il benvenuto ad Eli Peck.” Sia Leo che Eli avrebbero potuto essere un io, ma Philip Roth ha scelto diversamente, ha scelto di evitare che ci fosse una esplicita e immediatamente evidente prospettiva interna. Qualcuno guarda Leo e Eli e li descrive e ci racconta quello che dicono e fanno, per così dire, dall’esterno.
Non così, appunto, nel caso della descrizione del primo incontro con Brenda e nel cominciare a parlare di Scauri: in entrambe le situazioni ci viene immediatamente offerta una prospettiva sul mondo dall’interno. Guardiamo le cose – Brenda, il mare di Scauri – attraverso gli occhi di qualcuno che nel testo dice “io.”
Sostiamo un momento sulle conseguenze di questa scelta. Che differenza fa per noi lettori avere a che fare con un io? Mi soffermo qui su due aspetti. Il primo è un rischio, il secondo è, in un certo senso, una scorciatoia (scivolosa).
Il rischio: identificare l’io che ci racconta la storia con l’autore del libro. Si tratta di una trappola sempre in agguato soprattutto nei casi in cui ci sono delle immediate somiglianze a livello superficiale tra quello che sappiamo dello scrittore e quello che veniamo a sapere dell’io nel romanzo. Con l’eccezione dell’autobiografia, in cui il patto di genere è fondato proprio sull’identità di autore e io che narra, è bene tenersi alla larga da facili conclusioni in questo senso. E’ evidente che tutti gli scrittori attingono in vari modi alla propria vita, ai luoghi e alle persone che conoscono, ma questo non significa che possiamo sentirci autorizzati ad immaginare una coincidenza tra chi sta fuori dal mondo narrato e chi ci sta dentro. Il conosciuto è – spesso – il punto di partenza per l’esplorazione di soggettività, contesti, relazioni, eventi, in una parola, di traiettorie esistenziali alternative, ma non dobbiamo pensare, come ama sottolineare Philip Roth, che i romanzi siano velate confessioni. I romanzi sono romanzi, punto.
La scorciatoia (scivolosa): sappiamo cosa significa essere nei nostri panni, quindi la presenza di un io che racconta la (sua) storia ci fornisce una corsia privilegiata per identificarci con il/la protagonista ed empatizzare con lui/lei. Ci è facile capire – e non dobbiamo dimenticare – che tutto quanto ci verrà narrato dipenderà da quello che l’io in questione sa, vede, ricorda, intuisce, presuppone come pure da ciò che non sa, non ricorda, non capisce, non vede ecc. ecc. Siamo cioè ancorati (e quindi vincolati) ai limiti percettivi e di conoscenza di colui/colei che parla: limiti, pregiudizi, credenze, idiosincrasie, in una parola, dipendiamo dal suo punto di vista. E i punti di vista – si sa – non sono garanzia di veridicità. La scorciatoia è quindi scivolosa perchè ci ritroviamo ad entrare in risonanza emotiva con l’io che racconta, prima di sapere se possiamo davvero fidarci della sua versione del mondo.
nota
Sto presentando qui una alternativa secca: o prima persona o terza persona. In realtà, ci sono casi di seconda persona (tu) e di prima persona plurale (noi) anche se non si tratta di casi molto frequenti.