Ho usato questa espressione parlando dell’incipit di “Eli il fanatico” e mi sembra importante almeno tentare di affrontare questa questione. Si tratta di una faccenda delicata e piuttosto scivolosa che tira in ballo gusti personali e (scomode) istanze universalistiche, quelle, per intenderci, che nutrono i canoni letterari – le liste di libri che ogni generazione definisce come validi e rappresentativi della propria identità, ovvero della propria idea di se stessa.
Propongo un criterio a cavallo tra il soggettivo e l’oggettivo, senza dubbio discutibile, ma pragmatico. Come per la lunghezza degli inizi, credo nell’utilità di utilizzare parametri che abbiano una certa applicabilità immediata ed anche intuitiva. Ecco qui dunque la mia proposta: i libri che valgono sono quelli che non vengono consumati dalla prima lettura, quelli che sono in grado di reggere ulteriori letture, anzi, potremmo dire che le auspicano. Altro modo di dire la stessa cosa: i libri che valgono non sono solo trama, hanno qualcos’altro che ci trattiene, che ci interroga, che ci fa uscire dalla nostra zona di comfort di lettori. Non sono, insomma, libri usa-e-getta, ma libri a cui si ritorna, a cui si può ritornare e spesso il nostro ritorno è premiato da nuove, sorprendenti scoperte.
Tento un’ulteriore distinzione, pure se molto naïf, tra libri che valgono una seconda e ulteriore lettura perché riescono a “racchiudere” una porzione di mondo, e libri che, al contrario, riescono a “dischiudere” una porzione di mondo. Sui primi torno per la loro capacità di darmi attraverso la narrazione chiavi di lettura di ciò che è, sui secondi perché rendono inutilizzabili le chiavi che mi hanno fornito i primi. È, questa dinamica, uno dei piaceri del leggere, nel mio piccolo caso.