Il sussurro del mondo (Richard Powers, 2019)

 

 

 

All’inizio  non c’era nulla.

Poi c’era tutto. E poi, in un parco sopra una città occidentale dopo il crepuscolo, piovono messaggi nell’aria. Una donna è seduta per terra, appoggiata a un pino. La corteccia preme contro la sua schiena, dura come la vita. Gli aghi profumano l’aria e un’energia freme nel cuore del legno. Le sue orecchie si sintonizzano sulle frequenze più basse. L’albero sta dicendo delle cose, in parole che precedono le parole.

Dice: Il sole e l’acqua pongono domande cui vale continuamente la pena rispondere.

Dice: Una buona risposta deve essere reinventata tante volte, da zero.

Dice: Ogni granello di terra ha bisogno di un nuovo modo in cui venire stretto tra le dita. Esistono più modi di mettere rami di quanti qualunque ginepro nella Virginia riuscirà mai a trovare. Un cosa può spostarsi ovunque, stando semplicemente ferma.

La donna fa esattamente questo. Segnali piovono intorno a lei come semi.

Quella notte la conversazione si spinge lontano. Le curvature degli ontani parlano di antichi disastri. Fiori di castagno chinquapin simili a spighe fanno cadere il loro polline; presto diventeranno frutti spinosi. I pioppi fanno eco al brusio del vento. I cachi e i noci esibiscono le loro lusinghe e i sorbi rossi i loro grappoli. Querce secolari sventagliano presagi di maltempo futuro. Le diverse centinaia di biancospini comuni si fanno beffe del nome comune che sono costretti a condividere. Gli allori insistono sul fatto che persino la morte non è nulla di cui doversi preoccupare troppo.

Qualcosa nel profumo dell’aria suona come un ordine per la donna: Chiudi gli occhi e pensa a un salice. Il pianto che vedi sarà un’imitazione imprecisa di quello vero. Immagina la spina di un’acacia. Non riuscirai a figurarti niente di abbastanza acuminato. Cos’è che è sospeso sopra di te? Cos’è che fluttua sulla tua testa – Ora?

Ecco unirsi alberi persino più lontani: Tutti i modi in cui ci immagini – mangrovie stragate su trampoli, l’asso di picche capovolto di una noce moscata, i tronchi nodosi dell’albero elefante, il missile dritto di una Shorea robusta – sono sempre delle amputazioni. Vi manca la metà, e anche di più. C’è sempre tanto sottoterra quanto sopra la superficie.

E’ questo il guaio con le persone, il problema delle loro radici. La vita scorre di fianco a loro, invisibile. Proprio lì, proprio accanto. Creando il terreno. Il ciclo dell’acqua. Negoziando sostanze nutrienti. Formando il clima. Costruendo l’atmosfera. Nutrendo e curando e riparando più specie di creature di quante le persone riescano a contare.

Un coro di legno vivente intona alla donna: Se la tua mente fosse una cosa un po’ più verde, ti sommergeremmo di significato.

Il pino a cui è appoggiata dice: Ascolta. C’è una cosa che devi sentire. (La nave di Teseo, traduzione di Licia Vighi).

Così comincia l’ultimo romanzo dello scrittore nord-americano Richard Powers, Il sussurro del mondo (The Overstory) che gli è valso il premio Pulitzer per la letteratura 2019.

Non possiamo che essere spiazzati da questa apertura e chiederci: all’inizio, quando? Poi, quando? E il poi che segue il primo poi e introduce un luogo e una presenza umana, quando? Proprio questa indeterminatezza temporale associata all’assolutezza di una assenza (“nulla”) prima, e di una presenza (“tutto”) dopo, ci dà un’importante informazione: Powers vuole dare al suo romanzo una dimensione mitica, collocandolo su uno sfondo che evoca le origini dell’universo. Come tutte le storie che si occupano delle origini, Powers vuole che il suo romanzo ingaggi la questione fondativa del senso di quanto esiste. Il senso che propone in questo prologo, che non potevo che presentare nella sua interezza, si gioca – tutto – su un rovesciamento del nostro senso comune delle cose.

Prima del rovesciamento più ovvio – è il non umano che parla (il pino) e l’umano (la donna) che ascolta i messaggi che le piovono addosso – notiamo un piccolo dettaglio che va nella stessa direzione e ne prepara il dispiegamento: è la corteccia che preme contro la schiena della donna e non viceversa. L’albero ci è presentato come senziente e agente e quindi come soggetto: questo è il centro del mondo che vuole presentarci Powers, potremmo dire, dato l’inizio mitico, il nuovo mondo che Powers vuole che impariamo a vedere e sentire. Il mondo che conosciamo, poggiato su ingredienti con i quali possiamo facilmente entrare in sintonia e raffigurare – una città occidentale, il crepuscolo, una donna, un albero, l’aria profumata dagli aghi di pino – ci viene presentato come abitato da una presenza, prima singola, poi plurale, che non si comporta come ci aspettiamo.

Gli alberi, i boschi, le foreste, nei romanzi sono tipicamente lo sfondo dell’agire umano, spesso rappresentano il correlativo oggettivo, cioè lo specchio, dei sentimenti dei personaggi (la selva oscura che apre la commedia dantesca, l’aridità senza speranza dell’inizio di Furore di Steinbeck, per citare due esempi) o il sogno di uno spazio in cui l’uomo può ritrovare se stesso o perdersi. Qui, la questione è ben diversa: non solo il pino parla “in parole che precedono parole” ma manifesta una sapienza che racconta quello che ci circonda come non siamo in grado di coglierlo, immersi come siamo in un mondo antropocentrico che tutto domina perché tutto crede di conoscere. Il dettaglio della nominazione – gesto di impero e di possesso per eccellenza –la dice lunga su quanto non sappiamo e su quanto la nostra pretesa di dominio sia in fin dei conti un sopruso che costringe in una tassonomia miope, approssimativa e quindi irrispettosa: “le diverse centinaia di biancospini comuni si fanno beffe del nome comune che sono costretti a condividere.” Gli umani – secondo il pino – oltre che essere avvelenati (e inebriati) dal potere di nominare e possedere, sono zavorrati anche da una immaginazione povera, che amputa il mondo non umano che li circonda: “vi manca la metà, e anche di più.” Manca la metà se non di più perché questa metà non è immediatamente visibile agli occhi, perché va indagata con pazienza, perché va cercata con atteggiamento di umile ascolto, un ascolto che richiede – necessariamente e preliminarmente –ammettere di non sapere e di aver bisogno di essere istruiti. Il guaio con le persone, la radice di tutto (“root problem” nell’originale, tradotto qui infelicemente “il problema delle loro radici”) è proprio il non vedere – “la vita scorre di fronte a loro, invisibile.”

Questa donna (sapremo chi è quando torneremo a questa scena verso la fine del libro) diventa il modello di persona per cui Powers scrive, ovvero, potremmo azzardare, la persona in cui Powers spera il lettore si trasformi dopo aver fatto l’esperienza di questo romanzo potente e polifonico: un persona capace di sintonizzarsi sulle frequenze più basse, capace di sentire le cose dette “in parole che precedono le parole”, quelle parole che dischiudono la verità della nostra esistenza – condivisa profondamente con il non umano – su questo pianeta.

La chiusa del prologo che non dovremmo dimenticarci quando ci immergiamo nelle storie di memorabili personaggi e di memorabili alberi che abitano le pagine de Il sussurro del mondo, ritorna alla tonalità mitica dell’inizio. “Ascolta” rievoca infatti nientemeno che la consegna dei dieci comandamenti all’inizio del capitolo VI del Deuteronomio (“Ascolta Israele”). La suggestione provocatoria che Powers ci propone qui è quindi duplice: quella di considerare il racconto che si dipana nelle 400 pagine che seguono come il frutto del dire del pino e quella di considerare questo dire come il luogo salvifico della comprensione del mondo che abitiamo, della nostra identità, che se solo diventerà “più verde”, traboccherà di significati.

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Iniziare di nuovo

Ricominciare a scrivere qui, dopo tanto tempo, in un tempo che sembra senza tempo, che senso può avere? Simbolicamente è forse facile dire che parlare di inizi ci permette di creare uno spazio per ripensarli, cioè immaginarli come possibili. Come esseri umani siamo segnati dal tempo e dal suo scorrere quotidiano e parte della stranezza di questo periodo sta proprio nella sospensione del tempo, nello sfaldamento della sua relazione usuale con la realtà, lavorativa e sociale, che tipicamente cadenza le nostre vite. Siamo essenzialmente a casa, oggi, così come ieri, così come domani. Ed ecco che ricominciare a parlare di inizi proprio adesso può aiutarci a renderli possibili partendo da noi stessi, da quei gesti che possiamo fare per prepararci a ricominciare. Riflettere su come comincia un libro, chissà, ci può far riflettere sugli ingredienti di un (nuovo) inizio, più in generale. Spero che questo sia un tempo pieno di libri, quelli che si sono impolverati sugli scaffali, in attesa silenziosa di tempo, quelli che avete messo in evidenza, spostati dagli scaffali al tavolino in soggiorno e poi ancora sul comodino in camera da letto, perché volevate che il momento fosse giunto … ma poi il tempo non c’è stato.

E adesso? Mi sono detta che potevo dare il mio piccolo contributo e ricominciare ad esplorare gli inizi per allenarci a pensarli.

Cosìcomincia il prossimo libro che vorrei proporvi:

All’inizio non c’era nulla.

Poi c’era tutto.

No, non è il Vangelo di Giovanni, ma perché questa eco inequivocabile?

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American Pastoral – il film

Ho già avuto modo di scrivere in queste pagineamericanpastoralheader dell’inizio di Pastorale americana di Philip Roth. Come sottolineavo in quella occasione, nell’inizio è contenuto tutto quello che struttura l’intero romanzo dell’autore americano: la figura mitica del protagonista – Seymour Irving Levov, conosciuto da tutti con il suo soprannome, lo svedese, a indicare la peculiarità del suo aspetto — la voce narrante che ricorda in prima persona l’infatuazione per lo svedese condivisa da tutta la sua tribù di ebrei americani in un momento storico – gli anni della seconda guerra mondiale – così tragici e minacciosi.

Ieri sera sono andata al cinema a vedere American Pastoral di Ewan McGregor uscito da poco nelle sale italiane e non posso che riprendere il discorso di quell’inizio e condividere con voi qualche ulteriore riflessione.

Inutile dire che le trasposizioni cinematografiche dei libri che amiamo sono potenzialmente difficili da digerire. Quanto più significativo è stato il nostro coinvolgimento nella lettura di un dato libro, tanto più resistenti siamo ai necessari cambiamenti che il differente mezzo richiede. E se le cose stanno così, non potevo che aspettarmi un’ardua digestione …

Il nocciolo del capolavoro di Roth sta nella premessa, una premessa che nel romanzo occupa la prima novantina di pagine: Nathan Zuckerman, lo scrittore i cui ricordi di bambino aprono il romanzo, incontra alla festa del 45esimo anniversario di quella che noi chiamiamo maturità, il fratello dello svedese, Jerry Levov, e viene a sapere non solo che lo svedese è morto, ma che ha avuto una vita infernale a causa del padre, impossibile da soddisfare, delle insaziabili mogli (da notare il plurale) e “della piccola assassina, quel mostro di sua figlia.” Sbalordito da queste notizie che così poco si attagliano alla “mistica dello svedese” fondata sul suo aspetto, sulla sua bravura sportiva senza pari e sulla moglie bellissima, lo scrittore diventa via via più ossessionato dalla storia dello svedese e non può che tentare di illuminare il suo dilemma esistenziale (come è potuto succedere tutto questo a uno come lui?) cercando di ricostruirne la traiettoria a partire dalle poche informazioni che gli ha dato Jerry e dalle ricerche che ha fatto. Come il primo paragrafo del romanzo mette immediatamente in luce, la storia è incentrata sulla ricostruzione che Nathan Zuckerman fa dello svedese. Nella Pastorale americana di Philip Roth, lo svedese è profondamente, quintessenzialmente, lo svedese di Zuckerman.

Ebbene, possiamo dire che il film ben comincia perché si apre su Zuckerman che arriva al 45esimo anniversario e si incanta nel guardare la vetrina dei trofei conquistati dallo svedese – il tutto con voce fuori campo che recita proprio le parole dell’incipit del romanzo. Quindi, la mistica dello svedese così come è percepita da Zuckerman è in scena da subito così come deve essere se si intende mantenere una certa fedeltà al romanzo. Il regista mi sembra faccia lo sforzo di suggerire che la storia dello svedese che segue nasce dall’interesse di Zuckerman, con la scelta di sfumare il racconto che Jerry fa allo scrittore amico e di mettere così in evidenza il pensiero che va formandosi nella mente di Zuckerman mentre ascolta trafitto quanto Jerry gli sta dicendo: vuole sapere tutto della storia dello svedese (o qualcosa del genere – vado a memoria).

La premessa si chiude e la storia dello svedese comincia dal paradiso della sua esistenza come fidanzato della splendida Dawn che regge il confronto con il futuro suocero – Lou Levov.

Pazienza che questa scena avvenga molto tardi nel romanzo, come pazienza per gli altri numerosi dettagli spostati o cambiati (niente bacio da parte dello svedese all’insistente figlia undicenne, per esempio!); il film mantiene una certa somiglianza di fondo … almeno fino ad un certo punto. Il fatto è che non si tratta di un punto qualsiasi, ma del punto del non ritorno, di una distanza incolmabile con il romanzo.

Il regista decide di chiudere il film con il funerale dello svedese e con il fantomatico ritorno della figlia. Forse il regista ha sentito l’esigenza di tornare su Zuckerman e chiudere quindi a cerchio la sua storia. Ebbene, il romanzo non può chiudersi con il funerale dello svedese, né tanto meno con il ritorno della figlia perché deve chiudersi con una domanda, non con una risposta. Il romanzo si chiude letteralmente con un punto di domanda ad indicare inequivocabilmente che nonostante tutto il lavoro di ricerca e di ricostruzione immaginifica che ha impegnato per mesi Zuckerman, la distruzione della vita dello svedese rimane e non può che rimanere un mistero. Il cercare tragico e ossessivo dello svedese e il cercare vano del suo amico scrittore, intrappolato nella sua aura magica rimangono sospesi, cristallizzati in un potenziale, tragico, non senso – figura del nostro stesso potenziale non senso. La chiusa evidenzia e amplifica uno dei temi portanti del romanzo, quindi, la vanità del cercare risposte alle domande cruciali della vita e del suo senso.

Ma di cosa mi sto lamentando? Questo – in fin dei conti – non è lo svedese di Zuckerman (e di Roth), ma lo svedese di Ewan McGregor.

Forse devo accontentarmi di un Fernet …

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